Le interviste sono salti nel buio: fai un numero di telefono e quasi sempre non hai idea di chi ti risponda. Sacrosanto che sia così: le interviste sono incontri tra persone che non si conoscono, durante i quali una indaga in cerca della notizia che faccia notizia, l’altra cerca di veicolare le informazioni più utili alla propria causa, esponendosi il meno possibile.
Mi piacerebbe dire che sono partite a scacchi, ma non ci so giocare.
Conosco molto bene, invece, quel sapore un po’ metallico che dà il quarto d’ora precedente la chiamata: è concentrazione, è attenzione, è una svegliata a tutti i sensi diversi dai soliti vista-olfatto-tatto così che l’udito possa percepire anche i non detti. È qui che si gioca la faccenda.
Una introduzione lunga ma dovuta per rendere tutti partecipi di quanto possa essere estremamente piacevole trovarsi di fronte (per dire: in tempi di covid si fa tutto al telefono) una persona gentile, con la voce serena, armoniosa, che parla con elegante lentezza così che ogni parola emessa sia comprensibile. Non solo nel suo significato vero, ma anche in quell’universo che sta indicando, mostrando, chiarendo.
Così Gabriele Stringa, co-founder della cantina Ferro13, anima digitale della casa vinicola che esporta in ben 47 Paesi nel mondo e che è tra le più innovative in fatto di comunicazione.
Playlist su Spotify, vini che hanno un # come nome. La vostra comunicazione è avanti anni luce rispetto a quella classica che siamo abituati a vedere. Ma gli italiani sono pronti per tutto questo stile digitale?
“Potrei far ricorso al nemo propheta in patria sua, ma voglio rispondere con qualche informazione in più. Ferro13 nasce nel 2017 in modo davvero atipico: la cantina non è un’azienda familiare, ma è nata mettendo insieme le qualità di quattro persone diverse: Alberto Buratto è la guida nel mondo del vino, Marco Bernabei è enologo nel dna, Alberto Zampini è la mente che ha reso tutto ciò possibile e poi ci sono io, traslocato in vigna dall’ambiente digitale tradizionale. Già così abbiamo rotto ogni stereotipo della cantina italiana. Ognuno di noi però ha portato il personale quid allo scopo di creare un prodotto piacevole e interessante. La veste è diversa, ma il vino è prodotto come vuole tradizione, dall’uva.”
Il vostro stile di comunicazione ha agevolato o no le vendite?
“Partiamo dal concetto che vendere la prima bottiglia è facile. È vendere la seconda che lo è di meno. Noi abbiamo sempre avuto due vantaggi: un prodotto valido e una propensione per l’estero, mercato che ha avuto una crescita prorompente. A livello locale ci siamo organizzati con la vendita vis-a vis. Così la volevamo, creando una sorta di cantina diffusa, che possiamo gestire noi stessi: d’altronde, solo il 20% del nostro fatturato proviene dal mercato nazionale.”
Dallo stile digital al vis-a-vis in un paio di righe?
“Il vino si stappa per bere in compagnia! Non si dimentichi che sono veronese, quindi il mio obiettivo principale è convertire gli astemi in alcolizzati (ride). Scherzi a parte, la domanda a cui ogni produttore deve rispondere è ‘cosa cerca il cliente nel mio prodotto?’, da qui la bella necessità degli incontri, dei confronti. Prowine, Vinitaly sono le sedi più giuste per incontrare la domanda, sedendo con i clienti, riempiendo i bicchieri e parlando del vino mentre ne senti ancora il profumo.”
Però l’80% del vostro fatturato viene dai mercati internazionali.
“In un mondo globalizzato non è possibile restare chiusi nella nostra bolla, bisogna guardare cosa accade fuori, seguire i percorsi diversi, fare esperienze. Poi, se all’estero il nostro vino è molto richiesto, va benissimo, no?”
È possibile che questa differenza di percentuali sia data anche da una maggiore disponibilità all’acquisto di vini più costosi perché made in Italy? Ovvero, è possibile che l’Italia sia ancora vittima di una comunicazione che non rende giustizia al prodotto in sé? Un esempio: sono disposta a spendere cifre astronomiche per un paio di sneakers, ma non per acquistare un vino da 30 euro che mi rende perfetta una serata.
“Il vino è un bene di consumo immediato: apri la bottiglia e finisce lì; le sneakers le userò per molto più tempo. Ma ho capito il concetto. Possiamo tutti verificare come la gente sia più disposta a pagare 16 euro per una birra artigianale mentre per una bottiglia di vino già la metà del prezzo è ritenuta una cifra elevata. Questo perché non è chiaro quale sia il valore del vino, quali siano i tempi della sua lavorazione, quanta fatica c’è dietro un anno in vigna, con l’assenza di pioggia o con le bombe d’acqua, con le gelate e con lo scirocco. Poi una bottiglia di vino puoi comprarla e conservarla, anche se so perfettamente che considerare il vino come investimento ancora è davvero una pretesa quasi folle. Eppure così dovrebbe essere. Ogni produttore di vino deve considerare la componente di rischio che il prodotto stesso ha in sé, e ogni produttore di vino è costretto a barcamenarsi tra volume della produzione, volume delle vendite e qualità.
Sappiamo bene quanto questi ultimi tanti mesi abbiano danneggiato il mondo HORECA (hotel restaurant catering) – attraverso il quale la qualità ha la sua ragion d’essere- , lasciando che il volume di vendite venisse garantito dal sistema GDO (grande distribuzione) che, al contrario, non supporta le bottiglie di fascia medio-alta.
Personalmente, trovo assurdo vedere vini venduti a 4 euro/litro. Perché non è possibile insultare in questo modo la fatica di un lungo, lunghissimo anno di lavoro quotidiano.”
La lingua batte dove il dente duole: quindi concorda con me e con la mia perplessità su una comunicazione quasi respingente? Le recensioni dei vini sono per lo più criptiche, quasi surreali. E a parte i sentori minerali e i profumi di qualunque cosa, mi sembra che mai venga messa in bell’evidenza la provenienza direi biologica del prodotto.
“Anche qui si va a folate di mode. Un anno tutti trovano sentori di peperone, un altro protagonista è la foglia del pomodoro, un altro ancora la pipì di gatto… ma è ovvio che il palato è un qualcosa di personale, unico, non è uguale a quello di nessun altro. In ogni caso, decifrare il vino con modalità ostiche non è di molto aiuto. Se rimarremo potabili nella comunicazione, in grado dunque di essere compresi da un pubblico vasto ed eterogeneo, il mercato ne trarrà un gran beneficio”.
C’è speranza?
“Assolutamente sì. È indubbio che durante la pandemia l’approccio delle persone al vino è cambiato. Sono aumentate le vendite on line e questo ha comportato, a monte, una maggior ricerca delle persone che prima di ordinare una bottiglia hanno voluto saperne di più. Da qui le maggiori conoscenze dei vitigni, delle terre di produzione, finanche delle differenze delle etichette locali. Pensi che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi al mondo a vantare una incredibile varietà di uve all’interno di aree piccolissime, anche di soli 10 chilometri quadrati, uve che sono eccellenza senza se e senza ma. Ad esempio, sono un grande fan di Erbaluce, un vitigno antico coltivato solo nelle aree attorno a Biella, Novara e Torino. Un vitigno meraviglioso, che la passione di alcuni produttori sta riportando sulle nostre tavole grazie a una ritrovata attenzione da parte del mercato.
Più la richiesta sarà di qualità, più di qualità sarà l’offerta, su questo non c’è dubbio. E il resto arriverà, così come arriverà anche la tv, un mezzo di comunicazione che sembra in decadenza ma la cui potenza è indiscutibile: le trasmissioni dedicate alla tavola e a tutto quello che ci gira attorno sono sempre più attente anche agli abbinamenti con i vini.
Sì, c’è più che sola speranza: la qualità alla lunga vince. Sempre.”